Trama:
Che cos'è il male oggi? In che modo si può dire che le sue manifestazioni, le sue spinte, le sue modalità di aggredire il tessuto del mondo e delle persone che lo abitano si siano modificate? Zygmunt Bauman, uno dei più grandi pensatori viventi, già nel 1989, con "Modernità e olocausto", aveva riletto le atrocità del Terzo Reich sovvertendo l'opinione comune che si fosse trattato di un "incidente" della Storia e dimostrando che invece la "società dei giardinieri" illuministi (bene attenti a estirpare le "erbacce") aveva raggiunto con l'olocausto il suo risultato più esemplare. In questo libro Bauman compie un ulteriore decisivo passo avanti nell'identificazione del "male" ai giorni nostri. E lo fa con una ricognizione delle tesi fallaci che si erano affermate nel Novecento (dalla "personalità autoritaria" di Adorno alla "banalità del male" di Hannah Arendt) per mostrare poi, in un corpo a corpo con le opere di Jonathan Littell e di Günther Anders, che la presa di distanza dagli esiti dei nostri atti distruttivi (resa non solo possibile, ma obbligata, dalle mirabilia tecnologiche e dalla costrizione "diversamente morale" a non sprecare armi la cui produzione ha richiesto quantità esorbitanti di denaro) contribuisce a erodere la nostra sensibilità già gravemente indebolita, malcerta, afona.
Commento:
Da dove ha origine il male? Cosa spinge un essere umano a perpetrare crimini indicibili? C'è modo di individuare a priori chi è predisposto a commettere azioni malvagie? Il breve saggio di Bauman - con una interessantissima prefazione di Riccardo Mazzeo - analizza la questione concentrandosi soprattutto sul XX secolo, analizzando alcuni aspetti che hanno portato all'Olocausto e rispolverando le tesi dei più grandi pensatori del secolo scorso, dimostrandone l'inesattezza e la incompletezza. Partendo da quella di Adorno sulla "personalità autoritaria" che avvalora l'idea di una autoselezione dei malfattori determinata da predisposizioni naturali, più che culturali, del carattere individuale. Passando per la corrente di pensiero - forse la più seguita - che si basa sul "condizionamento comportamentale", per cui la collocazione sociale o determinate circostanze spingono individui "normali" a partecipare alla perpetrazione di gesta malvagie. Per poi analizzare le tesi di Hanna Arendt sulla "banalità del male", che nel suo lungo resoconto del processo a Eichmann, giunge alla conclusione che lui, insieme ai suoi numerosissimi compagni di malefatte, non era né un mostro né un sadico ed era invece esorbitantemente, terribilmente, spaventosamente "normale". Come sottolinea Martinelli nella sua ampia introduzione a "Le origini del totalitarismo", la figura di Eichmann costituisce nella sua atroce normalità l'espressione più inquietante del nazismo. Il tipo sociale caratteristico del totalitarismo, più che nel demagogo senza scrupoli o nell'avventuriero che si vende al miglior offerente, è infatti rappresentato - sempre secondo Martinelli - dall'individuo atomizzato della società di massa, incapace di partecipazione civile, che trova la sua nicchia in una organizzazione che ne annulla il giudizio.
Uno degli studiosi che, per altro, recentemente ha sposato queste tesi è Philip Zimbardo che ne "L'effetto Lucifero", pubblicato nel 2007, riporta i risultati dello studio effettuato nel lontano Iraq su un numero di ragazzi e di ragazze americani incaricati della custodia dei prigionieri di guerra. Da esso è emerso chiaramente come il confine tra l'essere una brava persona e uno sterminatore, tra il bene e il male, sia in realtà una confine poroso e che ognuno di noi può diventare malvagio. Sono stati moltissimi gli studi del genere effettuati e tutti hanno portato alla conclusione che la distribuzione delle probabilità che l'ordine di commettere il male venisse obbedito o rifiutato ha seguito il criterio noto in statistica come la curva gaussiana e che probabilmente questi risultati siano dovuti a diversi fattori: ordini ricevuti dall'alto, rispetto istintivo o profondamente radicato per l'autorità o paura della medesima, lealtà rinforzata dalla considerazione del dovere e allenamento alla disciplina. Quello che preoccupa e spaventa di più, sottolinea Bauman, è che ci sono ben poche ragioni per essere ottimisti sul futuro; siamo davvero incapaci di imparare dalle sventure che portiamo con noi, ha scritto Georg Sebald nel suo "On the Natural History of Destruction, siamo incorreggibili e continueremo a percorrere le strade già battute che abbiano la minima relazione con il vecchio sistema di viabilità a cui eravamo abituati.
La tecnologia, che ci ha reso solo apparentemente tutti più vicini, in realtà ci deresponsabilizza. La "sindrome Nagasaki" di cui parla Anders, dimostra che quel che è stato fatto una volta può essere ripetuto molte volte, con ancor più deboli riserve. Stiamo diventando tutti sempre più chiusi ed insensibili al male che ci circonda; l'abitudine alla atrocità ci desensibilizza, diventano anch'esse routine. Un illuminante passo di Joseph Roth nel suo The Wandering Jews, avverte: Quando si verifica una catastrofe, le persone vicine vengono traumatizzate fino a provare un senso di impotenza... Ma le catastrofi croniche sono così spiacevoli per i vicini che quest'ultimi gradualmente diventano indifferenti sia alle catastrofi, sia alle loro vittime, quando non sviluppano in proposito una vera e propria impazienza... Quando l'emergenza si protrae troppo a lungo, le mani che si protendevano a offrire aiuto tornano a infilarsi nelle tasche, i falò della compassione si spengono.
E pare non esserci un inversione di tendenza, nemmeno in questo secolo... Bauman, attraverso le parole di Anders ci avvisa: ai giorni nostri, il più importante compito morale è quello di rendere le persone consapevoli che hanno bisogno di essere allarmate, e che le paure che le assillano hanno valide ragioni. Se non recuperiamo la dimensione della compassione, nel senso letterale del termine; se non comprendiamo che la moralità non significa essere buoni o cattivi, ma saper effettuare scelte, sapere che le cose e azioni possono essere diverse da come sono; se non conserviamo la nostra capacità - oggi si potrebbe definire "eroica" - di dire no, di disobbedire, il nostro si prospetta un futuro certamente poco roseo. Un futuro in cui i social network la fanno da padroni, ma nel quale continueremo indifferenti a vedere morire di fame il nostro vicino di casa e in cui saremo capaci di portare guerra ad un Paese schiacciando semplicemente un bottone; fieri del nostro senso di responsabilità e della nostra virtù.
(Raffaella Galluzzi)